Rilanciare il conflitto sociale.
Unificare le lotte.
di Cristiano Valente
In questa situazione di estrema fibrillazione economica e sociale, con l’intero mondo che traballa sulle incerte gambe del sistema economico e politico, la cognizione del tempo si restringe sempre più e gli avvenimenti precipitano in una continua evoluzione, tale da determinare nelle coscienze delle masse popolari ulteriore confusione, panico, smarrimento e quindi rassegnazione.
C’è bisogno estremo di chiarezza.
Vediamo, almeno su un versante che per noi rimane fondamentale per le sorti e le condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici, se contribuiamo in parte a farla.
Dopo la manovra lacrime e sangue del governo Berlusconi di fine agosto, comprensiva del famigerato articolo 8 sulla contrattazione, la nostra organizzazione nel suo direttivo nazionale del 9 settembre ha dato “mandato alla segreteria di acquisire un pronunciamento formale dei soggetti cofirmatari dell’accordo interconfederale del 28 giugno che renda esplicito che le norme applicabili sono esclusivamente quelle previste dall’accordo stesso.
Di fronte a questo esplicito pronunciamento la segreteria ha il mandato del CD per procedere alla sottoscrizione dell’intesa”. (1)
Nei nostri precedenti interventi abbiamo già criticato l’accordo del 28 giugno, (2) evidenziandone i maggiori limiti a partire dalla promiscuità della rappresentanza prevista fra RSU ed RSA e della disdetta dell’accordo del ‘93 da parte della UIL (cosa di cui stranamente non si parla), così come la presunta gerarchia del contratto nazionale su quello aziendale, fosse di fatto rovesciata al punto 7 dello stesso accordo, la dove vi è la ratifica delle deroghe a regime e dove si specifica che: “… i contratti collettivi aziendali possono attivare strumenti di articolazione contrattuale mirati ad assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi”.
Stupendo artificio linguistico per definire le deroghe senza citarle, codificate ancor meglio nel proseguo dell’articolato inerente la fase transitoria, la dove si scrive: “… i contratti collettivi aziendali conclusi con le rappresentanze sindacali operanti in azienda, d’intesa con le organizzazioni sindacali territoriali firmatarie del presente accordo interconfederale, al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa, possono definire intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplina la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro”.
Nell’adesione da parte della maggioranza del CD all’ipotesi di accordo, mettevamo l’attenzione come questa determinasse un pericoloso e grave isolamento di una categoria come la FIOM la quale a stragrande maggioranza si era schierata contro, nel mezzo di un’aspra e dura battaglia sindacale e giudiziaria con la FIAT ed eravamo stati inoltre facili profeti nell’indicare l’impossibilità, e/o forse la non volontà di una reale consultazione generale degli iscritti CGIL che avrebbe dovuto svolgersi entro i mesi estivi.
La dichiarazione del Direttivo del 9 settembre, ma soprattutto la successiva intesa fra le parti del 21 settembre, ha reso superflua anche questa già improbabile consultazione.
Resta da capire però come la Segreteria e la maggioranza della CGIL possa rappresentare questo ulteriore passaggio, avvenuto per altro in spregio a precedenti deliberati ed alla necessità di un voto di mandato di tutti gli iscritti, come un passo importante nella difesa delle condizioni e dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, con il dato che l’articolo 8 della manovra governativa non è stato minimamente messo in discussione e che quindi avrà valore legale comunque maggiore ad una qualsiasi intesa fra le parti .
Inoltre, resta sempre da capire come si possa continuare a presentare positivamente la firma congiunta con CISL UIL e Confindustria, avvenuta con un ulteriore strappo alla democrazia interna alla nostra organizzazione ed alla necessaria discussione ed approfondimento fra gli iscritti, con le affermazione che una delle stesse controparti firmatarie dell’intesa, a proposito dell’ uscita di FIAT da Confindustria, a solo qualche giorno di distanza dalla firma, dichiarava ai propri associati:
“E’ … importante chiarire che non vi è contrasto fra le due fondamentali innovazioni che sono state introdotte negli ultimi mesi: l’accordo interconfederale del 28 giugno, ratificato il 21 settembre e l’art. 8 della manovra di agosto.
Stare dentro il sistema associativo non significa in alcun modo rinunciare ad utilizzare gli strumenti legislativi che l’art. 8 mette a disposizione delle imprese. …Questa conclusione è corroborata non solo dai principali giuristi del lavoro, ma ora anche dalle affermazioni del Ministro del lavoro Sacconi …
Un sistema che ….per la prima volta, da certezza ed esigibilità al contratto aziendale e permette a quest’ultimo di fare intese modificative molto ampie per cogliere opportunità di crescita e sviluppo o per gestire al meglio le ristrutturazioni. A ciò si aggiungono le opportunità che offre l’art. 8 di derogare, attraverso accordi sindacali, anche a disposizione di legge che disciplinano varie materie, tra le quali le conseguenze del recesso del rapporto di lavoro.
Oggi un imprenditore iscritto a Confindustria può quindi beneficiare di tutte le flessibilità dell’accordo del 28 giugno e dell’art.8” (3)
A fronte di tali scenari che, come dicevamo nel giro di solo qualche mese, hanno ridotto e scardinato un insieme di norme e tutele sul versante del lavoro dipendente che hanno caratterizzato una intera stagione politica e sindacale che risale alla metà degli anni ‘60 dello scorso secolo, non c’è più tempo per bizantinismi politici sindacali o peggio lessicali.
La lotta di classe fra lavoratori ed imprenditori (usiamo questa locuzione per chi avesse ancora l’erronea convinzione che la lotta fra capitale e lavoro non esiste più) è in pieno svolgimento ed i lavoratori la stanno perdendo.
Non è più possibile baloccarsi su presunti orizzonti di salvezza nazionale né sperare in probabili cambiamenti di governo.
La posta in gioco non è un governo di salvezza nazionale o di centrosinistra . La posta in gioco sono i diritti fondamentali dei lavoratori e delle lavoratrici. La capacità di riconquistare e mantenere il potere d’acquisto, l’occupazione, il welfare, i servizi, cioè il nostro salario differito; la posta in gioco è il futuro delle giovani generazioni sparse e disgregate nel mondo della precarietà, della marginalità, dell’assenza di un futuro degno di questo nome.
L’attacco è diretto e violento. La lettera della Bce testimonia esplicitamente quali sono gli indirizzi che la borghesia europea ha in questo momento. Ricacciare tutte, ma tutte le conquiste avvenute con oltre 40 anni di lotte e di battaglie nel dimenticatoio della storia, avere una forza lavoro sempre più docile, ricattata, non organizzata, a cui al massimo concedere in maniera compassionevole un obolo di carità quando non potrà avere nemmeno una pensione dignitosa per sopravvivere.
Questi grandi economisti e grandi statisti non hanno nemmeno più l’ardire di camuffare o di edulcorare le loro indicazioni.
La ricetta che questi presunti scienziati indicano è: “..piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali …. Riformare il sistema di contrattazione salariale collettiva permettendo accordi a livello d’impresa ….revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento …” (4)
Queste le indicazioni che al primo punto contiene la famosa lettera, inizialmente segreta, della Bce .
Le seconde confermano la volontà e la necessità di intervenire sul sistema pensionistico affermando in maniera esplicita che occorre una : “ … riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e se necessario, riducendo gli stipendi” (5)
Tutte le altre chiacchiere sulla crescita sono appunto chiacchiere.
I padroni si stanno attrezzando affinché quando questa crisi, oramai da loro stessi definita sistemica, finirà ci sia per il capitalismo e quindi per loro, maggiore possibilità di sviluppo e di continuità avendo oggi messo le premesse per avere una forza lavoro sconfitta, ricattata, disunita, deprivata delle proprie organizzazioni di rappresentanza; in sostanza la classica politica del “prato verde”.
Con una tale situazione potrà ricominciare a svilupparsi in quel perenne pendolo di lotta fra le classi e di lotta economica fra gli stessi stati nazionali.
E’ il caso ultimo degli Stati Uniti dove settori democratici stanno cercando di far approvare una legge al Senato che darebbe via libera al governo per imporre dazi doganali su una serie di merci importate da paesi accusati di tenere in maniera artificiale basso il valore della propria valuta. Il riferimento esplicito, seppur non detto, è la Cina.
Al di là di come proseguirà il cammino di questa legge, che sembra invisa a settori repubblicani, uno studio più attendibile e prospettico afferma che nei prossimi 5 anni oltre il 15 % dei beni fabbricati oggi in Cina potrebbe ritornare in America ed essere al 100% “made in Usa”.
Questo perché a fronte di aumenti di oltre il 20% ottenuti dalla classe operaia cinese, oggi maggiormente organizzata sindacalmente e socialmente, i salari americani invece sono rimasti ancorati agli anni ’70
Questo studio chiamato non casualmente “Made in America again” redatto dalla Boston Consulting Group –Bcg (6) afferma che la tendenza che ha permesso dal 2000 al 2009 una quintuplicazione delle esportazioni dalla Cina agli USA, arrivando a 1200 miliardi di dollari, si ridurrà drasticamente.
Gli USA si stanno trasformando in un paese a basso costo: i salari si riducono o aumentano solo moderatamente, il dollaro si indebolisce, la forza lavoro è sempre più flessibile.
Se questo trend continua nel giro di cinque anni per le aziende USA sarà più conveniente produrre in Stati come Alabama, South Carolina e Tennessee che nelle città costiere della Repubblica Popolare.
E questi investimenti una volta rientrati a casa potrebbero generare fino a 3,2 milioni di posti di lavoro entro il 2020. I primi segnali del “Made in America again” sono già evidenti. Ford dopo aver raggiunto un accordo col sindacato Uaw che permetterà di pagare i neo assunti 14 dollari all’ora riporterà in patria fino a 2000 posti di lavoro.
Peerless Industries, leader negli accessori hi-fi ha rafforzato la produzione in Illinois, spostandone parte dalla Cina.
I richiami continui alla necessità della crescita produttiva, così come alla riduzione dei costi ed al risanamento dei conti pubblici come si vede sono tutte ricette di apprendisti stregoni, in quanto non fanno altro che spostare o rimandare le vere cause della crisi.
Tutti brancolano nel buio più assoluto.
Ciò che a tutti interessa è mantenere i propri margini di profitto, continuare a lucrare compreso l’uso della cosiddetta finanza creativa che dal 2007, cioè dal primo scoppio della bolla edilizia e della crisi dei mutui e dei derivati, nonostante tutte le chiacchiere sulla cattiveria delle banche e dei banchieri, continua a prosperare ed ad essere funzionante.
Il fallimento ultimo della Banca Dexia, colosso franco belga, è esemplare. Questa banca, come molte altre, ha lucrato su i bond Greci, Portoghesi e Spagnoli ed oggi che questi bond valgono quasi carta straccia a ripianare questi investimenti che questi cervelloni hanno fato non saranno loro stessi, ma le popolazioni Francesi e Belghe. .
Ciò che vale come un dogma per tutti i governi ed i padroni del mondo è che a pagare la crisi devono comunque essere le classi lavoratrici e le masse popolari. A quale prezzo non interessa a nessuno.
E’ evidente anche ad un bambino che la ricetta che la Bce ha indicato nella ormai nota lettera è la stessa che ha già adottato la Grecia e ciò nonostante la condizione debitoria di quel paese non è affatto diminuita, anzi in un gioco di domino si sta allargando a macchia d’olio a tutta l’Europa ed al mondo intero.
Rispetto alla Grecia, dopo aver imposto la svendita e la privatizzazione di tutti i porti e di tutte le infrastrutture più importanti di quel paese, portato le condizioni delle masse lavoratrici alla classica situazione del “prato verde”, il problema non sono le condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione la quale oltre a non arrivare più a fine mese per mancanza di reddito, manca anche delle medicine e dei farmaci primari.
Il problema fondamentale è casomai assicurare un “default “ morbido che non sia ufficialmente fallimento perchè le stesse banche che hanno nel loro bilanci Bond spazzatura hanno anche i CDS, i famosi derivati che assicurano sul rischio fallimento.
Se questo avvenisse le Banche dovrebbero esporsi con cifre colossali per cui di fronte ad un fallimento sicuro ( la Grecia non potrà mai onorare il debito) si parla di una rinegoziazione del debito tagliando i valori nominale dei bond sovrani di Atene del 60 %.
L’espressione che viene coniata è “haircurt” letteralmente taglio di capelli. (7) L’ipocrisia di tali indicazioni è talmente palese che a usare questa espressione è lo stesso Junker presidente dell’Eurogruppo il quale parlando di una “haircurt” e non di “default” praticamente si fa garante delle stesse banche che in un pauroso conflitto di interesse sono le stesse che devono decidere se “haircurt” è fallimento o no.
Se fosse fallimento si troverebbero esposte a sganciare un mucchio di soldi ai possessori dei CDS.
Quanto queste cose siano lontane dall’esigenze dei lavoratori e lavoratrici e delle nuove generazione è talmente ovvio che se non sarebbe tragico per le condizioni di vita di milioni di persone, verrebbe la voglia di ridere
Ciò che occorre è rilanciare una mobilitazione generale e continua. Faro di riferimento di ogni proposta di lotta e di obiettivi devono essere le nostre condizioni materiali e le nostre aspettative future.
Nessuna “union sacrè”, nessun governo di unità nazionale dovrà e potrà essere dai lavoratori visto come un governo amico.
Si dovrà decidere. Chi rimarrà nel quadro di riferimento delle indicazioni della Bce, (l’espressione a “saldi fermi” che sta usando il centrosinistra e settori vasti delle organizzazioni sindacali compreso la nostra è realmente sinistra) se le presunte vie di uscita indicate saranno ancora una volta sacrifici inevitabili, magari edulcorati da richiami del “siamo sulla stessa barca”, oppure con argomentazioni del tipo “abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità”, tutti questi saranno e sono nostri avversari politici.
Non ci rimane che costruire in maniera intelligente, costante e coordinata il conflitto sociale.
Non proponiamo nessuna sgangherata ribellione tardo giovanilista o fughe in avanti.
La nostra indicazione è una sana e robusta battaglia sindacale e politica che possa spostare realmente i rapporti di forza a nostro favore.
Il contratto nazionale che la FIOM ha ipotizzato per il prossimo triennio è la linea dell’intera organizzazione.
Prendiamolo come riferimento anche per gli altri settori a partire dai settori che non hanno ancora rinnovato il contratto, come i lavoratori dei trasporti e unifichiamo la battaglia sul salario.
Non lasciamo indietro nessuno. Le sconfitte sono sempre avvenute quando anche intere categorie sono state lasciate sole e mai la sconfitta iniziale di una categoria o di un settore di lavoratori si è fermata alla categoria, ma tragicamente le peggiori condizioni ottenute si sono generalizzate.
E’ il caso stesso dei meccanici in seguito alla storica sconfitta degli anno ’80 alla FIAT cosi come fu il cedere, negli anni successivi, sulle normative a modifica del mercato del lavoro concluse con la Legge 196/97, più nota come Pacchetto Treu, Ministro del Lavoro del primo Governo Prodi e che introdusse nel Giugno del 1997 il lavoro interinale precedentemente vietato dalla Legge n° 1369 del 1960.
Un famoso manifesto del lontanissimo Maggio francese recitava: “Ceder poco significa capitolare molto”. Quell’insegnamento è sempre vero.
Note:
- all. 4 al Dispositivo finale del Direttivo Nazionale della CGIL 9 settembre 2011
- Difesa Sindacale n°3 Luglio 2011-10-14
- Letera di E.Marcegaglia ai Presidenti delle organizzazioni confederate di Confindustria. 6/10/2011
- Lettera Bce al Governo Italiano
- Ibidem
- Il Sole24 ore 12/10/2011
- il manifesto 12/10/2011
La lunga stagione di “Tregua Sindacale” contro gli scioperi nel Pubblico Impiego
di Edo
Carlo Podda, coordinatore della minoranza congressuale della Funzione Pubblica CGIL, nel criticare l’accordo del 28 giugno scorso tra CGIL-CISL-UIL e Confindustria sul nuovo sistema di verifica delle rappresentanze nei luoghi di lavoro e approvazione degli accordi sindacali, fa notare che, con tali regole, la contrattazione aziendale potrà in futuro esercitarsi nell’ambito di materie ad essa delegate non solo dal CCNL di categoria ma anche dalle norme di Legge!
E prosegue: «Anche per la CGIL dunque, a differenza di quanto fin qui contestato a Brunetta per il lavoro pubblico e a Sacconi per il Collegato al Lavoro, la Legge assume capacità d’intervento sulle materie della contrattazione tra le parti. Dopo la rilegificazione del rapporto di lavoro pubblico, si andrà dunque incontro, a seconda delle mutevoli stagioni politiche, ad una curiosa specie di legificazione del rapporto di lavoro privato».
Per completezza, si può solo aggiungere che anche la stagione della cosiddetta “privatizzazione” del pubblico impiego, nel corso degli ultimi vent’anni, non ha significato affatto il venir meno degli interventi centralizzatori sulle materie della contrattazione, allorché le Leggi finanziarie dei vari Governi della borghesia, col supporto delle campagne scandalistiche di “destra” e di “sinistra” sugli impiegati nullafacenti, hanno regolarmente imposto politiche di blocco alle assunzioni e agli adeguamenti retributivi nei contratti nazionali, di controllo asfissiante – mediante gli organi contabili dello Stato - sugli accordi decentrati integrativi, di generale contenimento della spesa sul personale dipendente in ogni Comune, scuola o azienda ospedaliera.
Una politica di “legificazione” e contestuale svuotamento del ruolo del contratto nazionale a cui però la Funzione Pubblica CGIL non ha saputo contrapporre altro che la propria subalternità.
Come, ad esempio, in occasione dell’accordo separato, il 4 febbraio di quest’anno, di CISL e UIL col Governo, proprio in materia di salario integrativo nei comparti pubblici.
Un atto senz’altro grave, che rompeva – analogamente a quanto successo alla FIAT - il fronte sindacale, recepiva i contenuti della famigerata “legge Brunetta” in materia di premi di produttività, ufficializzava il blocco del contratto nazionale; un atto dunque che richiedeva una risposta forte ed immediata.
Lo sciopero generale proclamato dalla Funzione Pubblica per il 25 marzo, sebbene questa data non fosse il massimo della tempestività, aveva comunque il merito di collegarsi, ancora a caldo, ad una serie di vertenze condotte in quel momento da altre categorie, tra cui quella dei metalmeccanici FIOM.
Il successivo contrordine fatto pervenire dai vertici nazionali della CGIL ha portato poi, come è noto, alla revoca del suddetto sciopero, allo scopo di farlo confluire su quello generale dell’intera CGIL proclamato per il 6 maggio (a proposito, sciopero generale o non piuttosto…… manifestazione pre-elettorale?).
Con un risultato finale più che deludente per quanto riguarda la vertenza dei dipendenti pubblici, la cui specifica piattaforma di lotta è passata in secondo piano rispetto alla lunga e ben più visibile lista di rivendicazioni “politiche” della CGIL, con ai primi posti: disoccupazione, fisco, investimenti nel mezzogiorno, controllo dei prezzi, innovazione tecnologica, incentivi alla ricerca, sostenibilità ambientale, crescita delle piccole imprese, ecc. ecc.; senza contare gli effetti negativi, agli occhi dei lavoratori, di una mobilitazione prima annunciata e poi – a causa di problemi di mediazione burocratica tra apparati sindacali nazionali e di categoria – fatta slittare in avanti di ben…… tre mesi! Un bel bilancio, non c’è che dire.
Indubbiamente, la decisione di concentrare in un’unica iniziativa di lotta tutte le categorie del lavoro dipendente (metalmeccanici, pubblici, commercio, ecc.) non può, in generale, che essere vista con favore.
Va anche detto però che la forza di una mobilitazione sindacale - al di là di ogni altra considerazione sulla coerenza o meno dei suoi obiettivi rispetto agli interessi reali dei salariati – deve essere valutata non solo in rapporto alla consistenza numerica dei partecipanti, ma anche rispetto alla sua capacità di incidere e ottenere risultati tangibili per i lavoratori.
Lo dimostra il fallimento, l’anno scorso in Francia, delle imponenti manifestazioni sindacali contro l’innalzamento dell’ età pensionabile; le pur numerose sfilate nelle piazze della capitale e delle principali città, non supportate da un profondo movimento di scioperi, non hanno avuto alcun peso nel ribaltare i rapporti di forza col Governo.
Lo sciopero, quello vero, quello senza preavviso, quello con l’obiettivo di bloccare i settori trainanti della produzione (non quelli già in crisi!), quello diffuso in grandi e piccole aziende del territorio nazionale, quello che riesce a provocare – nel più breve tempo possibile - il massimo danno gli interessi economici dell’avversario di classe, lo sciopero così inteso non è una scampagnata buona per tutti gli usi.
Esso è una vera e propria arma collettiva attraverso la quale la «coalizione» sindacale, come diceva Marx, si propone «di sospendere la concorrenza degli operai tra loro per poter fare una concorrenza generale al capitalista».
Da questo punto di vista, una utile riflessione andrebbe fatta sulle modalità che attualmente disciplinano l’esercizio del “diritto” di sciopero nel pubblico impiego.
L’art. 40 della tanto osannata Costituzione Italiana sancisce che: «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano». Quali sono queste leggi? Innanzitutto la legge 146 del 1990 che è congegnata in modo tale da rendere, neanche a dirlo, parecchio complicata, se non completamente inefficace, l’azione di sciopero in ambito pubblico; sulla base di questa legge – e dei contratti nazionali di categoria che ad essa si sono adeguati quasi alla lettera – ad ogni proclamazione di sciopero, anche a livello locale, corrispondono degli obblighi molto precisi a cui il sindacato deve sottostare; e cioè:
- obbligo di garanzia, con un minimo di personale contingentato, dei servizi considerati “essenziali”, cioè quasi tutti: sanità, trasporti, raccolta e smaltimento rifiuti, produzione ed erogazione di energia, protezione civile, servizi scolastici, culturali, elettorali, ecc. ecc.;
- obbligo di preavviso di almeno 10 giorni (tale obbligo vale anche per un semplice blocco delle prestazioni straordinarie!);
- divieto di sciopero ad oltranza;
- divieto di sciopero articolato per reparto, in giorni successivi consecutivi;
- divieto di sciopero breve (cioè poche ore) se non ad inizio e fine turno di lavoro;
- divieto di sciopero nel corso di consultazioni elettorali;
- sanzioni, infine, per chi non rispetta le suddette regole: di tipo disciplinare (vale a dire pecuniarie) per il singolo lavoratore; sotto forma di sospensione dei permessi retribuiti e degli introiti derivanti da tesseramento per l’organizzazione sindacale.
Questi, a dir poco, scoraggianti vincoli hanno finito col far apparire in molti casi lo sciopero nel pubblico impiego come un’arma scarica, a cui è inutile fare ricorso in quanto non comporta alcuna perturbazione al pacifico andamento delle attività amministrative centrali e locali; riducendosi esclusivamente, quello sì, ad una giornata di secca perdita in busta paga (e senza alcuna contropartita economica) per il lavoratore.
Non ci si può quindi meravigliare se la partecipazione alle lotte, checché se ne dica, abbia toccato anche nei comparti pubblici i minimi storici: una tendenza che le frequenti e rituali “marce su Roma” sindacali, per lo più nei fine settimana, non possono servire né a nascondere né a surrogare.
Quello che qui si contesta non è ovviamente la regolamentazione in sé – a cui francamente appare poco realistico contrapporsi - quanto l’eccesso di regolamentazione legislativa a cui lo sciopero pubblico, da decenni, è sottoposto.
Un eccesso di intervento legislativo che, di fatto, vanifica la stessa libertà di sciopero - il cui “diritto” viene ipocritamente garantito a parole dalla classe dominante – trasforma in giocattolo inoffensivo l’unico strumento di difesa in mano ai lavoratori, indebolisce il potere contrattuale di tutta la categoria.
Oggi, i contenuti dell’accordo con Confindustria del 28 giugno, di cui si parlava all’inizio, dettano «clausole di tregua sindacale» anche nei contratti aziendali privati. Da varie parti sono stati espressi timori sugli effetti vincolanti di tali clausole; effetti che limiterebbero ulteriormente gli spazi di agibilità per il dissenso sindacale.
C’è da augurarsi che tale riflessione sia un incentivo, almeno per quanto riguarda la Funzione Pubblica CGIL, a rimettere in discussione una delle cause della lunga stagione di “tregua” sindacale di fatto in vigore all’interno dei comparti pubblici.
Se si vuole seriamente risalire la china, l’opposizione alle leggi contro gli scioperi rappresenta un passaggio ineludibile.
Contratto della mobilità: il punto
di Dino Bocchi
Tra i contratti nazionali da rinnovare ci sono anche quelli degli “Autoferrotranvieri” (ovvero il Trasporto Pubblico Locale; da ora in poi TPL) e delle “Attività Ferroviarie”; anzi, per essere precisi, si tratterebbe di fare un nuovo contratto della “Mobilità” in grado di superare i due CCNL presenti nel settore. I lavoratori a cui viene applicato il CCNL/TPL sono attualmente circa 130.000, mentre il CCNL/AF interessa circa 75.000 ferrovieri del “Gruppo FS” e di altre aziende, ed alcune migliaia di lavoratori dei servizi in appalto. Una forza d'urto notevole, quindi, in grado di esprimere un elevato potere di contrattazione soprattutto per quanto riguarda il trasporto collettivo delle persone. In realtà qualcosa non quadra se, ad oltre due anni di distanza dalla sigla del primo accordo che dettava le linee del nuovo Contratto, non si è ancora riusciti a concludere questa lunga vertenza.
Le spiegazioni di questa impasse possono essere molteplici, così come le motivazioni che hanno spinto le organizzazioni sindacali ad intraprendere la strada del CCNL unico della mobilità. Ma andiamo con ordine.
La necessità di un nuovo contratto della mobilità è emersa già da alcuni anni e soprattutto la Filt-Cgil, che dal 1998 aveva elaborato una strategia di aggregazioni contrattuali, ha posto al centro del dibattito sindacale questo obbiettivo. Questo perché la liberalizzazione dettata dall'Unione Europea (ed accettata in Italia con entusiasmo sia all'interno dello schieramento parlamentare di centro destra che da quello di centro sinistra) pone dei problemi prima impensabili in questo settore. Basterebbe citare il recente caso della Lombardia con la nascita di Trenord (fusione tra le Ferrovie Nord che applicano il CCNL/TPL ed il trasporto regionale di Trenitalia che applica il CCNL/AF), ma anche l'iniziativa portata avanti nella Commissione Trasporti del Parlamento Europeo per vietare le Holding ferroviarie. Quest'ultima proposta, se accettata, obbligherebbe allo scioglimento il “Gruppo F.S.” e quindi la cessazione di qualsiasi legame aziendale tra Trenitalia e Rete Ferroviaria Italiana con gravi riflessi sulla occupazione, sul servizio, sulla sicurezza. La relatrice di questa proposta, per inciso, è la giovane europarlamentare Barbara Serracchiani già nota alle cronache politiche nostrane per essere, nel Partito Democratico, tra i cosiddetti rottamatori.
Il panorama contrattuale nel settore non è, come detto, univoco; nel CCNL/TPL e nel CCNL/AF sono diversi gli orari settimanali, la classificazione del personale, la struttura del salario, ecc... Nello stesso CCNL/AF persistono delle particolarità (ad esempio tra i ferrovieri ed i servizi ferroviari che vi sono confluiti nel 2005), senza considerare nel panorama anche la presenza dell'importante “Contratto Aziendale del Gruppo F.S.” che include alcune normative migliorative rispetto allo stesso CCNL/AF. Nel settore del TPL, infine, hanno una grande incidenza gli accordi derivanti dalla contrattazione aziendale nelle tante aziende sparse sul territorio.
Sarebbe quindi estremamente importante avere un nuovo CCNL della Mobilità che includa tutte le imprese del settore e costituisca quindi un elemento unificante in grado di limitare la concorrenza tra i lavoratori. Il perseguimento di questo obbiettivo, pur considerando le grandi difficoltà di questa vertenza contrattuale che si svolge in una delicata situazione sindacale, non può comunque prescindere dalla difesa di conquiste che sono state raggiunte in anni di lotte e di sacrifici da parte dei lavoratori.
All'inizio del 2009 è stata varata, in un'assemblea nazionale che ha visto presenti le maggiori organizzazioni sindacali del settore (Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, Orsa, Ugl, Fast-Confsal, Faisa-Cisal), una piattaforma rivendicativa per il nuovo CCNL; una piattaforma anomala, aggiungiamo noi, non passata al vaglio di assemblee territoriali e con trame talmente larghe da risultare solo un documento generico. La spiegazione delle Segreterie nazionali è stata che questo non era un normale CCNL da “manutenzionare”, e che le diversità tra i contratti di provenienza erano talmente ampie che non ci si poteva ingessare con una piattaforma particolareggiata; una spiegazione, questa, che non ci ha mai convinto e che crediamo invece nasconda la volontà di definire in maniera burocratica e centralizzata il nuovo contratto.
Ma, al di là di queste considerazioni, a che punto è la situazione della vertenza nel settore? Dopo la sigla dei protocolli di intesa del 30 aprile e del 14 maggio 2009 che hanno fissato le linee generali per il proseguimento della trattativa per il CCNL della Mobilità, oltre ad aumenti salariali di riallineamento, il 15 maggio 2009 c'è stato un “Accordo programmatico per il rilancio competitivo del Gruppo F.S.”.
Questo accordo, tra le altre cose, ha introdotto su molti treni il macchinista solo (esisteva già il macchinista unico che però prevedeva in cabina di guida la presenza del capotreno), con una serie di problematiche connesse ai carichi di lavoro ed alla sicurezza del personale. L'accordo, non siglato da Orsa che ha una notevole adesione nel personale di macchina, ha avuto un'accoglienza negativa nei settori di macchina e di bordo sia per il metodo verticistico con cui è stato siglato che per i suoi contenuti. Aggiungiamo noi, come riflessione, che è giunto pure in maniera improvvida: è difficile comprendere come si possa cedere un'arma di contrattazione così importante, con un enorme recupero di produttività per l'azienda, nel pieno della più generale vertenza contrattuale.
Successivamente, dopo alcuni scioperi rinviati per vari motivi, si è giunti il 30 settembre 2010 all'accordo tra OO.SS. e parti datoriali sulla cosiddetta prima parte del contratto, cioè gli articoli riguardanti il sistema delle relazioni industriali, i diritti sindacali, il mercato del lavoro; un accordo, questo, che non ha introdotto sostanziali novità ma che costituisce un'occasione mancata per poter includere maggiori salvaguardie occupazionali per i lavoratori degli appalti interessati da frequenti cambi d'azienda. Successivamente, il 17 novembre, viene fatto un ulteriore accordo nel “Gruppo FS” per quanto riguarda il comparto del trasporto merci con l'introduzione di nuove figure professionali ed un forte recupero di produttività, praticamente senza niente in cambio per i lavoratori, anticipando e condizionando di fatto l'intera trattativa contrattuale del settore.
Per quanto riguarda la più ampia trattativa per il CCNL/Mobilità, mentre le parti datoriali del TPL si dichiarano indisponibili a trattare sulla classificazione e l'inquadramento professionale, nel settore delle attività ferroviarie emergono delle convergenze. Dagli attuali otto livelli con undici posizioni parametrali (100/171), si passerebbe a sette livelli con quindici parametri retributivi (100/180), ripercorrendo così la strada del mito sindacale della professionalità che non risolve le contraddizioni presenti ed acuisce le divisioni tra i lavoratori. Tra l'altro si verrebbero ad ampliare i già larghi criteri di valutazione delle aziende in merito agli sviluppi professionali, con conseguente aumento del ricatto salariale.
Intanto, viste le grandi difficoltà di giungere ad un contratto omogeneo soprattutto per le fortissime resistenze di ASSTRA ed ANAV, associazioni delle aziende del TPL, le OO.SS. si orientano per un Contratto della Mobilità come contenitore dei due CCNL/TPL e CCNL/AF. Soprattutto la parte riguardante il TPL vive, in questi mesi, una fase di forte stallo.
Per quanto riguarda le attività ferroviarie dall'inizio del 2011 è iniziato un confronto con la presentazione, da parte dei rappresentanti delle aziende, di articolati sulla classificazione professionale, le declaratorie, l'orario di lavoro, le ferie, ecc... Continua così il vizio di origine di questa strana trattativa con le OO.SS. che, sulla difensiva, si vanno a confrontare sulle proposte avanzate dalle parti datoriali; nella sostanza questo ha significato inseguire le aziende sul loro terreno rappresentato da proposte devastanti soprattutto per quanto riguarda la flessibilità del personale, l'orario di lavoro, la riduzione degli esigui spazi di contrattazione esistenti sul territorio, la fruizione delle ferie. Di adeguati aumenti salariali, naturalmente, non se ne parla.
L'orario di lavoro, come detto, è nel CCNL/AF di 38 ore settimanali mentre per quanto riguarda il “Contratto Aziendale del Gruppo FS” è rimasto a 36 ore; la proposta dell'azienda è di allinearlo alle 38 ore. Sempre nel CCNL/AF si vorrebbe introdurre la figura del “personale mobile” (macchinista, capotreno, settore merci, appalti) la cui sede di lavoro non avrebbe più come riferimento un impianto fisso ma bensì una “base operativa”; in pratica, a seconda del raggio della “base operativa”, si introdurrebbe una grande flessibilità nel luogo in cui terminare la prestazione lavorativa con un forte peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Gli spazi di contrattazione delle RSU, già oggi estremamente ridotti, verrebbero inoltre di fatto annullati contraddicendo nei fatti il tanto sbandierato accordo tra OO.SS. e Confindustria del 28 giugno 2011.
In alcuni territori e categorie è così emerso un crescente malumore che deve aver suggerito, in Filt-Cgil, la convocazione di un comitato nazionale del settore della mobilità. Dal dibattito, che ha ribadito la necessità di raggiungere il CCNL della Mobilità, è inoltre emersa la volontà di confermare le 36 ore settimanali nel “Contratto Aziendale del Gruppo F.S.” e di contrastare alcune delle proposte datoriali per il CCNL/AF. Rimane invece una posizione sfumata, e per questo ancora più preoccupante, sulle proposte delle aziende in merito al “personale mobile”, alla “base operativa”, alla classificazione professionale.
Ma, a complicare ulteriormente lo scenario, è piombato anche l'accordo intercorso tra OO.SS. e la NTV di Montezemolo e Della Valle in cui, accanto al fatto che la nuova azienda adotta la parte già siglata del CCNL della Mobilità, si introducono capitoli dell'orario di lavoro e della struttura del salario diversi dall'attuale CCNL/AF. Se questa era una prova generale della devastazione dei CCNL introdotta dall'accordo del 28 giugno, oggi ribadita e peggiorata con l'art. 8 della manovra governativa, ci sembra perfettamente riuscita. Naturalmente tutto ciò ha dato l'occasione a Mauro Moretti, Amministratore Delegato del “Gruppo F.S.”, di proporre ulteriori penalizzanti scenari contrattuali.
Ancora più preoccupanti le notizie dal fronte del TPL sottoposto per tutto il 2011 alle problematiche derivanti da mancati trasferimenti alle Regioni, da parte del Governo, di fondi per il settore. Tutto questo ha messo a rischio migliaia di posti di lavoro e le soluzioni a questa situazione si sono frammentate nei vari territori, mentre incombe una minaccia ancora maggiore derivante dalla manovra governativa che porterebbe ad un fortissimo taglio nel 2012 del servizio di Trasporto Pubblico Locale con conseguenze facilmente immaginabili.
Intanto, dalla metà di maggio, il confronto tra le parti è bloccato e neppure il partecipato sciopero nazionale del settore del 21/22 luglio sembra sia riuscito a riattivarlo; erano infatti previsti incontri per l'inizio di settembre, poi rinviati a data da destinarsi. Nel frattempo è stato indetto, per il 21 ottobre, uno sciopero dei ferrovieri e degli appalti ferroviari a causa della situazione sindacale in rapido peggioramento nel “Gruppo F.S.”. Arriveremo ad un nuovo sciopero anche per il CCNL della Mobilità ? Se si, per quale tipo di contratto ?
Il tempo stringe e non è dalla parte dei lavoratori. E' assolutamente necessario che le organizzazioni sindacali escano dall'ambiguità e rimedino alla perdente impostazione iniziale della trattativa presentando proposte chiare, nette, convincenti, sia per quanto riguarda le normative che per la parte salariale. Il necessario CCNL della Mobilità non deve portare ad un peggioramento delle condizioni dei lavoratori già investiti da anni da una grande flessibilità, precarietà, perdita salariale. E' inoltre necessario abbandonare la logica di scioperi “una tantum” ed imboccare una strada fatta di lotte decise e stringenti. Solo così ci sarà il convinto appoggio degli autoferrotranvieri, dei ferrovieri, dei lavoratori degli appalti, e la forza per conquistare il nuovo contratto del settore.
Abbiamo deciso di assumere come riferimento per alcune nostre considerazioni presenti nel successivo articolo, la lettera che segue e la relativa introduzione che la precede perché le riteniamo significative per comprendere il malessere che esiste all’interno del confronto tra le aree programmatiche che compongono l’opposizione di classe in CGIL. Partendo dalla lettera cercheremo di portare il nostro modesto contributo alla valorizzazione di ciò che unisce piuttosto che indugiare nell’opera di sottolineatura di ciò che invece divide, certi che la necessità di unificare le opposizioni di classe presenti in CGIL sia un processo che debba investire i lavoratori e la difesa dei loro interessi immediati e storici, arginando la litigiosità di chi trasferisce sul piano sindacale le schermaglie che caratterizzano gli schieramenti politici creando così nuove divisioni.
Difesa Sindacale
Lettera e introduzione sono state tratte dal n. 17 del 17 ottobre 2011 di “Lavoro e Società” periodico di informazione on line dell’area programmatica “Lavoro e Società” in CGIL.
Pubblichiamo la lettera inviata dal nostro collaboratore, nonché esponente della segreteria CGIL a Varese, Gian Marco Martignoni al ‘manifesto’: un contributo che riteniamo interessante perché entra nel merito della crisi di quel quotidiano anche in relazione alla sua
discutibile “gestione” delle vicende sindacali.
Premesso che l’ultima veste grafica del ‘Manifesto’ l’ho trovata convincente e piacevole, al punto da permetterne una lettura più distesa e fruibile, credo che il vero problema sia comprendere le ragioni del calo dei lettori, stante che compagni e compagne che conosco da lunga data vi leggono ormai solo saltuariamente, mentre altri quotidianamente affezionati vi saltano al sabato per via di Alias e non solo del sovrapprezzo che ne consegue.
Evidentemente vi sono ragioni politiche e culturali che impediscono che l’area vasta della sinistra comunista e radicale si riconosca nell’unica testata sopravvissuta alla crisi della sinistra extra parlamentare, soprattutto perché nei contenuti della nuova veste grafica vi sono tanti pregi ma anche tanti difetti. I pregi sono molteplici, a partire dalla vivacità delle pagine culturali ed internazionali: sulla Libia avete svolto un lavoro insostituibile, su Cuba avete fortunatamente una finestra sempre aperta e sulla Palestina Michele Giorgio è sempre puntuale nei suoi servizi; la questione dei migranti è sempre al centro dell’attenzione, avete sviluppato più inchieste, così come il dibattito sulla “Rotta dell’Europa” è certamente di alto livello.
I difetti, invece, riguardano politicamente l’esaltazione di un certo movimentismo e al contempo del vendolismo dopo i disastri del bertinottismo, per non parlare del manicheismo che affligge Loris Campetti a proposito del rapporto tra Fiom e Cgil, nonché l’esaltazione di “Uniti contro la crisi” quando, permettetemi, il solo fatto che Rinaldini e Casarini convergano su documenti senza alcun rigore e spessore teorico, è indicativo semmai di una confusione politica senza eguali. Dopodiché, avete da tempo incrinato il vostro rapporto con quanti guardano con interesse al percorso della Federazione della Sinistra, giacché non è con i sondaggi stile ‘Repubblica’ e funzionali al Pd che marcia la politica quotidiana, altrimenti non avremmo avuto l’affermazione, nonostante Vendola, di De Magistris a Napoli.
Che alla redazione del ‘Manifesto’ non interessi che nel nostro paese si costituisca una formazione comunista e radicale come la Linke in Germania resta un mistero politico. Infine, poiché concordo con Tiziano Cavalieri (lettera del 6 c.m.) a proposito dell’eclettismo politico-culturale che vi contraddistingue, ritengo sia sterile definirsi ancora “quotidiano comunista” senza una coerente ripresa e valorizzazione del lascito del pensiero di Karl Marx, ovviamente mondato dalle aporie che sono emerse nel corso del costante e infinito dibattito storico attorno alle sue opere.
Relativamente alle dimissioni di Norma Rangeri e Angelo Mastroandrea mi associo alla corale richiesta di maggior trasparenza sul dibattito in corso nel vostro collettivo redazionale.
Fraterni saluti.
Gian Marco Martignoni
Ancora sullo stato dell’opposizione interna alla CGIL: considerazioni attorno a una lettera
di Giulio Angeli
La crisi di della vecchia opposizione
La crisi di identità in cui sui dibatte il gruppo dirigente di “Lavoro e Società”, che dopo le scelte del XVI congresso è ormai assimilato alla nuova maggioranza, è ben sintetizzata da una lettera del compagno Gian Marco Martignoni comparsa sull’ultimo numero periodico on line “Lavoro e Soicietà” (n. 17 del 17 ottobre 2011) che intendiamo assumere quale stimolo per una riflessione sull’allarmante stato dell'opposizione interna alla CGIL.
In questa lettera inviata a “Il manifesto” sono contenute alcune personali considerazioni di politica generale circa il presunto indirizzo del quotidiano per nulla attinenti alla realtà sindacale e che stentiamo, per questo, a considerarle un contributo costruttivo al dibattito in CGIL così come, evidentemente, si pretenderebbe di sostenere con la sua pubblicazione su di un bollettino sindacale, quale è il sopradetto periodico on line.
Che nella CGIL ci sia chi considera rilevante “che alla redazione del ‘Manifesto’ non interessi che nel nostro paese si costituisca una formazione comunista e radicale come la Linke in Germania...” (vedi lettera sopradetta) rientra nelle legittime e insindacabili libertà di pensiero, ma che si pretenda di utilizzare questi argomenti nel confronto politico interno alla CGIL ebbene, ciò è francamente fazioso. D’altronde la lettera in questione è solo l’ultimo dei pronunciamenti tesi a scaldare i muscoli di una inutile e nociva contrapposizione tra gruppi dirigenti, che rischia di coinvolgere e contrapporre anche un l’intero tessuto militante che ha contribuito con efficacia, e ben oltre gli schieramenti, ad arginare la deriva moderata della nostra organizzazione. A titolo di cronaca riportiamo un altro brano della sopradetta lettera, poiché lo riteniamo significativo:
“I difetti (della nuova veste de “il manifesto” ndr) invece, riguardano politicamente l’esaltazione di un certo movimentismo e al contempo del vendolismo dopo i disastri del bertinottismo, per non parlare del manicheismo che affligge Loris Campetti a proposito
del rapporto tra Fiom e Cgil, nonché l’esaltazione di “Uniti contro la crisi” quando, permettetemi, il solo fatto che Rinaldini e Casarini convergano su documenti senza alcun rigore e spessore teorico, è indicativo semmai di una confusione politica senza eguali”
Questa è una posizione certamente legittima ma che trasportata nel dibattito sindacale assume connotati settari e ingiustificatamente polemici, gli stessi che a sinistra hanno già distrutto e disperso numerose energie militanti e che continuano a fomentare divisioni all'interno della CGIL, come se già non bastasse l'azione disgregante condotta dal Partito Democratico per allineare l’organizzazione alla deriva neocorporativa già intrapresa da CISL e UIL, al fine di preparare un adeguato sostegno sindacale confederale a un futuro e presunto governo, magari di unità nazionale, retto da un “Papadopulos” italiano espressione di un nuovo blocco sociale borghese post berlusconiano, intenzionato ad applicare il dettato antisociale della BCE, coerente espressione del capitale finanziario in Europa.
D’altronde ci pare che “Lavoro e società” non perda occasione per stigmatizzare i comportamenti de “La CGIL che vogliamo” e della FIOM, alimentando con questo una polemica che ci permettiamo di definire irresponsabile, poiché paralizza il confronto tra compagni piuttosto che ricercare elementi di unità tra le opposizioni, dai quali sarebbe essenziale ripartire in considerazione della disgregazione indotta dalla crisi e dalle male arti del riformismo che alimenta proprio questo genere di contrapposizioni.
Questo argomentare è la diretta conseguenza di quel confronto tra fazioni che, inaugurato al XVI congresso della CGIL, ha continuato a replicarsi in uno scontro tutto interno ai gruppi dirigenti, che ancora oggi perdura e che rischia di allontanare la CGIL e i settori dell'opposizione interna dalla realtà dello scontro di classe.
Tale distanza, di cui l'accordo del 28 di luglio è l'ultimo dei frutti avvelenati, ci pare la conseguenza di una sclerosi politica che si riduce a scambiare il cortile di casa propria con la realtà in movimento.
La paralisi della nuova opposizione
Ma non saremmo obiettivi se non sottoponessimo anche, “La CGIL che vogliamo” a una critica severa.
Già ci siamo espressi, e in più di un'occasione, sulla miopia propria di chi ha preteso di costruire un’ opposizione interna all’organizzazione partendo dalle categorie e da gruppi dirigenti eterogenei, ponendo in essere un’operazione politica, magari suggestiva, ma largamente inefficace proprio perché incapace di intercettare e valorizzare, non ostante alcuni validi tentativi di interlocuzione con i movimenti, le varie istanze di opposizione espresse dalla CGIL nel corso di questi ultimi anni che sono risultate, invece, inevitabilmente compresse.
Infatti, là dove queste mobilitazioni sono state particolarmente significative come, ad esempio, nella FIOM, assistiamo ad allarmanti sintomi di autonomizzazione, inevitabilmente conseguenti all'assenza di un punto di riferimento unitario dell'opposizione interna alla CGIL, che il XVI congresso non ha saputo né esprimere né prospettare.
“La CGIL che vogliamo” è quindi frutto di una operazione verticistica, naturalmente destinata a scontrarsi con il verticismo della vecchia maggioranza e della vecchia opposizione, un'operazione che, per come è stata condotta già prima del XVI congresso (totale chiusura da parte della FIOM alle richieste di unità provenienti da interi settori di “Lavoro e società”,) ha contribuito a bloccare ogni reale possibilità di confronto tra le diverse esperienze dell’opposizione,, pregiudicando la possibilità di un reale percorso unitario.
Oggi “La CGIL che vogliamo” è un'area programmatica ai margini dell'organizzazione, un'area di opposizione che non riesce ad aggregare: non esiste in numerose categorie importanti, non è presente nei territori, subisce la concorrenza “massimalista” della “Rete 28 Aprile” e risulta fortemente indebolita anche nella FIOM.
Ci rendiamo conto che indire due scioperi generali nazionali in meno di quattro mesi, scioperi riusciti per altro in crescendo, ha costituito un grande sforzo che qualifica e consolida il ruolo della CGIL quale fondamentale punto di riferimento per la difesa delle condizioni di vita delle classi subalterne aggredite dall'attacco del capitale. Quest’ultimo è un ruolo che la CGIL assolve in modo contraddittorio in considerazione della sua forte componente moderata e concertativa ma che, comunque, la carica di una grande responsabilità: quella di fornire risposte concrete alle aspettative che questa sua mobilitazione suscita tra i lavoratori e tra gli strati sociali più deboli e privi di tutele, e al riguardo vogliamo svolgere alcune considerazioni.
Ruoli compiti e obiettivi di una nuova opposizione di classe interna alla CGIL
La prima riguarda le manifestazioni, perché se ne fanno veramente troppe e non è un buon segnale. Dopo i due scioperi generali caratterizzati da manifestazioni è seguita quella nazionale di FLC (scuola, università ricerca e alta formazione) e Funzione Pubblica tenutasi l'8 ottobre us, poi la manifestazione del 15 ottobre us a Roma, entro la fine di ottobre ci sarà quella nazionale della FIOM, poi a novembre è prevista quella dello SPI CGIL e, per finire, una nuova manifestazione nazionale recentemente indetta dalla CGIL per dicembre pv.
Questo sventagliamento di forze non è tanto la conseguenza di una vitalità del movimento quanto, piuttosto, della sua divisione e le manifestazioni finiscono per surrogare l’incapacità di esprimere precise proposte unitarie, quasi come se ogni soggetto o categoria sociale, lo diciamo provocatoriamente, si facesse la sua manifestazione in proprio per non perdere il diritto alla rappresentanza.
La crisi impone il superamento sia del particolarismo che dell'autoreferenzialismo, presenti in numerose iniziative del movimento così come in moltissime istanze della CGIL, con l'articolazione di obiettivi praticabili che unifichino il mondo del lavoro e le categorie sociali, i ceti e le classi colpite dall’attacco capitalistico per dare un solido riferimento all'opposizione sociale, che rischia di disperdersi nella disgregazione, nella frustrazione e nell'avventurismo di minoranze estreme le quali, anche se esasperate in quanto prodotte dalla crisi, provocano con azioni dissennate la criminalizzazione dello scontro sociale, agevolando la riduzione della lotta di classe a un problema di ordine pubblico, secondo una diffusa e reazionaria tendenza dominante.
L' intenzione politica efficacemente sintetizzata dallo slogan “noi la crisi non la paghiamo” deve divenire programma, e solo la CGIL ha le capacità politiche organizzative e sindacali per dare alle parole il sapore dei fatti, qualificando uno slogan che sta facendo il giro del mondo.
Per questo è necessario uscire dal particolarismo e darsi obiettivi concreti.
L'opposizione interna alla CGIL, quella vera e vitale, quella costituita da centinaia di militanti sindacali che hanno speso, con grande generosità e senza rimpianto alcuno, le loro migliori risorse per volgere l’azione sindacale paralizzata dalla deriva concertativa in direzione della difesa delle condizioni di vita dei lavoratori e degli strati sociali travolti dalla crisi, oggi si trova di fronte all’assunzione di consapevolezza e responsabilità: deve voltare le spalle ai litigi dei gruppi dirigenti e iniziare a unificare il movimento di classe.
Al riguardo la FIOM ha coraggiosamente indicato una via, quella del rinnovo del contratto, e questa via dovrà essere raccolta dall’opposizione che dovrà impegnarsi affinché la CGIL recuperi questa spinta e la generalizzi.
L’opposizione dovrà qualificare gli obiettivi che già la CGIL avanza: ma dovrà incalzarla con forza affinché vada oltre alle sia pur condivisibili misure per combattere l'evasione fiscale e alle richieste di patrimoniale, ma dovrà esigere che le risorse così recepite non vadano a “ripianare il deficit pubblico, ma utilizzate per finanziare aumenti salariali uguali per tutti, maggiori diritti e tutele e la difesa del contratto nazionale di lavoro, riuscendo così a redistribuire più equamente la ricchezza sociale prodotta che in questi anni è stata assorbita dai profitti e, soprattutto, dalle rendite.
Questi sono gli obiettivi per preparare un’unica vertenza dei lavoratori italiani e delle classi sociali più deboli: difesa del contratto collettivo nazionale di lavoro, aumenti salariali uguali per tutti, maggiori diritti e maggiori tutele. L’opposizione dovrà spingere affinché la CGIL richieda con forza che parte delle risorse servano a finanziare cospicui investimenti nell'istruzione di ogni ordine e grado, nella formazione, nella ricerca e nei beni culturali per creare nuove opportunità di lavoro a chi il lavoro lo ha perso e a chi non lo ha ancora trovato, per combattere efficacemente il precariato e il lavoro nero.
Infine sarà necessario avviare un piano di manutenzione e di normalizzazione dell'edilizia scolastica, universitaria e pubblica in genere, (sicurezza antincendio, abbattimento barriere architettoniche e sicurezza in genere), migliorare la qualità dei trasporti urbani e extraurbani, delle infrastrutture e dei servizi sociali, elevare la sicurezza del territorio (bioedilizia, energie alternative) e delle città con il recupero delle periferie e migliorare la qualità dei servizi erogati per elevare la qualità della vita delle fasce più deboli della società.
Di questo dobbiamo discutere non di altro.
MEMORIA
ATTILIO SASSI
Nato a Castelguelfo (Bologna), il 6 ottobre 1876, da una famiglia di operai, Sassi iniziò a lavorare undicenne, al termine delle scuole elementari, come muratore. Nel 1895, come altre migliaia di lavoratori italiani, in quel periodo emigrò in Brasile, nella regione di Minas Gerais dove rimase nove anni, lavorando nelle miniere di manganese.
E' d'agli anni '90 circa che l'immigrazione italiana, concentrata sino ad allora esclusivamente in Argentina, si indirizza verso il Brasile. Da 9742 che erano nel 1875 gli emigranti italiani in Brasile passano a 123.626 nel 1891. Nel 1910 i soli immigrati italiani saranno in tutto il paese oltre un milione e mezzo.
E' in questo paese che avviene la formazione sindacale e politica di Sassi, all'interno dell'immigrazione italiana e del clima sociale e politico di quegli anni. Nello stato di Minas Gerais, risiedevano all'arrivo di Sassi circa 50.000 italiani, arrivati a famiglie o a gruppi; prevalentemente occupati nelle miniere o nelle fazende.
Il governo Brasiliano non aveva creato nessuna struttura per accogliere le decine di migliaia di immigrati; i coloni al loro arrivo dovevano costruirsi abitazioni provvisorie e quanto era necessario per la sopravvivenza.
Le condizioni di lavoro erano molto dure, spesso più dure che in Italia; come conseguenza erano frequenti le sommosse e gli scontri tra operai italiani e esercito brasiliano Sarà grazie all'iniziativa dei leader anarchici e socialisti che nasceranno
le prime organizzazioni operaie di tutela dei lavoratori.
Un ruolo particolare in questa opera di organizzazione svolto dalla stampa di tendenza anarchica; dal 1892 inizia la pubblicazione una lunga serie di periodici, il primo è "Gli schiavi bianchi" diretto da Botti; del '93 "L'asino Umano" a Sao Paolo e "L'Avvenire" a Montevideo del '96-97.
L'"Eco operaio" a Rio Grande do Sul, "Settembre XX" e "La Birichina" a Sao Paolo; del '98 "Il Risveglio" a Sao Paolo La formazione nei primi anni del secolo dei centri industriali, dove lavoravano per la quasi. totalità operai stranieri, per la maggior parte italiani, vede anche il sorgere delle prime unioni del movimento operaio italiano. Nel 1903 nascono le unioni dei fochisti e degli stivatori, nel 1906 a Sao Paolo si costituisce la Confederazione Operaia.
Tutte le organizzazioni sindacali fino all'indomani del primo conflitto mondiale vedono maggiormente rappresentate al loro interno le tendenze del sindacalismo anarchico.
Sassi rientra in Italia nel 1904 e riprende a lavorare come muratore, ma organizza sindacalmente braccianti, birocciai, fornaciai e soprattutto contadini.
Non riuscendo a trovare una stabile occupazione, nel 1905 Sassi emigra in Svizzera ma nel 1906 è di nuovo in Italia dove riprende il lavoro politico e sindacale impegnandosi nella provincia di Bologna in una attiva propaganda anticlericale.
Denunciato per istigazione a delinquere, per avere disturbato una processione a Medicina (Bologna), è in seguito assolto.
Tra il 1906 e il 1907 si costituisce all'interno dell'or7anizzazioni sindacali una tendenza di forte critica nei confronti dei riformismo del partito socialista e della CGIL; in un convegno tenuto a Parma il 3 novembre 1907, ai quale Sassipartecipa insieme a Borghi, De Ambris, Corridoni, viene decisa la costituzione, all'interno del movimento sindacale di un Comitato nazionale dell'azione diretta, ai quale aderiscono le Camere del Lavoro di Bologna Cesena, Mirandola, Modena, Parma, Ferrara, Piacenza. Dal 1910, Attilio Sassi dirige il sindacato muratori di Imola, in lotta per la...conquista del "sabato inglese"; l'anno successivo aderisce al gruppo anarchico imolese "Amilcare Cipriani" e diviene segretario del sindacato Cavatori di Imola. Collabora ad alcuni periodici anarchici, tra cui "L'agitatore" di Bologna e "Il pungolo" di Imola (quest'ultimo curato da Adamo Mancini mentre al primo collaboravano Luigi Fabbri, Armando Borghi, Maria Rygier, Zavattero).
Nel 1911 si trasferisce per alcuni mesi a Crevalcore per dirigere la lega dei birocciai, ma nel 1912 è di nuovo a Imola. E' in quel periodo che inizia l'amicizia di Sassi con Errico Malatesta, che ne faranno di lui un esponente di primo piano dell'anarchismo emiliano romagnolo.
Nel 1912 partecipa a Modena alla costituzione dell'Unione Sindacale Italiana; nel '13 insieme a Saccono e Borghi viene inviato dalla CdL di Parma come oratore a Carrara, a sostenere la vittoriosa lotta degli operai del marmo guidati da Alberto Meschi per le 8 ore.
Nel dicembre partecipa al secondo congresso dell'USI in rappresentanza del sindacato muratori e cavatori di Imola In quegli anni organizza frequentemente a Imola e Castelguelfo conferenze internazionaliste contro il militarismo dilagante in Europa. Agli inizi del 1914 tenta la costituzione in Bologna di un Fascio Libertario, che però trovò scarse adesioni; a metà aprile dello stesso anno è designato, dal consiglio generale dell'USI a far parte della segreteria della Camera del Lavoro di Piacenza, della quale era segretario Borghi.
A Piacenza Sassi, ricopre la carica di segretario provinciale dei lavoratori della terra; trasferitosi nella cittadina emiliana lavora come caposquadra presso una fabbrica di materiali bellici.
Nel giugno del '14 ritorna brevemente in Romagna dove è tra gli organizzatori della "Settimana Rossa"; dopo questi avvenimenti ritorna a Piacenza, sotto stretta sorveglianza; nel luglio del 1914 è arrestato per "propaganda sovversiva e vilipendio alle istituzioni", rimesso in libertà riprende la dura campagna contro la guerra mondiale incipiente e l'interventismo dei "sindacalisti di Parma".
L'interventismo è infatti la causa della scissione interna all'USI. Il consiglio Generale del 13-14 settembre vede l'uscita della minoranza interventista mentre segretario generale diventa Armando Borghi.
Il clima politico italiano si inasprisce nello scontro tra interventisti e neutralisti. Sassi viene nuovamente arrestato nel dicembre del '14 e condannato a tre mesi di carcere; appena uscita riprende la campagna pacifista e la propaganda contro la guerra ed è nuovamente arrestato il 16 maggio 1915 durante uno scontro tra anarchici e interventisti.
Per tutta la durata della guerra Sassi prosegue la propria attività sindacale, il 15 giugno 1916 partecipa alla riunione del C.G. dell'USI che delibera il mantenimento di una linea di internazionalismo, di lotta di classe, contro la guerra.
Sassi prosegue la propaganda contro la guerra fino quando un decreto prefettizio del 7 agosto 1917 disporrà il suo immediato allontanamento dalla provincia di Piacenza; si reca allora a Roma assieme a Borghi per continuare il lavoro sindacale dell'USI.
Nel settembre del '17 si trasferisce clandestinamente, su incarico della direzione dell'USI, in Valdarno, con il compito di sostituire alla segretaria della lega dei minatori Enrico Melandri, chiamato alle armi.
Rintracciato dalla polizia ad Arezzo, alla fine del 1917, viene rispedito ad Imola con l'accusa di aver svolto nel Valdarno attività politica sovversiva e il sabotaggio della produzione di lignite, necessaria per il rifornimento del fronte.
Fallito un ulteriore tentativo di rientrare in Valdarno nel febbraio del 1918, in seguito ad un nuovo arresto nei pressi di Figline che gli costò la diffida a rientrare nella provincia di Firenze, Sassi ritorna nel Valdarno a Castelnuovo dei Sabbioni all'inizio del 1919 a pochi mesi dal termine della guerra.
Eletto nuovamente segretario della lega minatori, guida, con i sindacalisti anarchici Mari e Monetti la lotta dei minatori del Valdarno per la riduzione della giornata lavorativa a sei ore giornaliere e per l'aumento dei salari (una vertenza particolarmente dura prolungatasi dal 20 maggio al 7 agosto 1919).
Dal 1921 Sassi si stabilisce in Valdarno a Cavriglia, continuando comunque a mantenere contatti con l'Emilia, collaborando attivamente alla "Voce Proletaria" organo settimanale della CdL di Piacenza, sia con i compagni romagnoli di Imola a Castelbolognese.
Gli anni che vanno dal 1920 al 1922 sono di intensa attività per Sassi, soprattutto nella provincia di Arezzo; l'azione si caratterizza per il suo contenuto politico, dapprima con il sostegno alla rivoluzione russa e l'opposizione a spedizioni militari italiane in Russia e Ungheria, in seguito con la difesa del quotidiano anarchico Umanità Nova, fondato a Milano da Errico Malatesta nel 1920 è continuamente minacciato di sospensione delle forniture di carta; minacce alle quali i minatori del Valdarno rispondono con il blocco della produzione di lignite.
Il 1921 vede l'inizio in Toscana della reazione fascista contro le organizzazioni dei lavoratori. Nel marzo del 1921 Sassi è arrestato sotto l'accusa di essere stato l'istigatore morale" dei fatti di San Giovanni Valdarno e di Castelnuovo dei Sabbioni, dove i minatori si erano scontrati con le bande fasciste inviate da Firenze e numerosi sindacalisti e lavoratori furono arrestati e percossi con estrema violenza.
In attesa del processo per i fatti del Valdarno nel marzo del '22 Sassi è condannato ad un anno e sei mesi di carcere per gli incidenti avvenuti durante gli scioperi del 1919. Nel marzo del 1923 la corte di assise di Arezzo condanna Sassi, assieme ad altri 57 imputati, per gli scontri di Castelnuovo dei Sabbioni a 16 anni di carcere, uno di vigilanza speciale, ed alla interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Sassi scontò la pena nelle carceri di Perugia, Spoleto, Portolongone, finché non è liberato il 27 novembre 1925 per indulto reale; ritornato ad Imola sotto vigilanza speciale vi rimane solo un anno.
Alla fine del 1926 Sassi scompare da Imola, ed è rintracciato a Roma solo nel 1928, arrestato e nuovamente condannato a cinque anni di confino nella colonia di Ponza. Dopo un anno la condanna è tramutata in ammonizione e gli si consente di rientrare a Roma.
Disciolto dalla ammonizione nel luglio del L929, Sassi si trasferisce a Torre Pedrera in Romagna, dove agli inizi del 1930 riesce ad impiegarsi presso l’acquedotto di Ravenna.
A causa di un infortunio deve lasciare il lavoro e fa ritorno quindi a Roma, sotto stretta vigilanza della polizia che registra dal 1935 suoi contatti "con elementi antifascisti residenti all'estero".
Caduto il fascismo, Sassi riprende il suo posto nel sindacato; nel 1944 ritorna in Valdarno e promuove la riorganizzazione del sindacato dei minatori, diventandone il segretario nazionale.
Come rappresentante della corrente anarchica prende parte alla riorganizzazione della CGIL dopo il "patto di Roma"; nominato membro del Direttivo Nazionale fa parte anche della Consulta Nazionale, ma rifiuta il seggio di deputato e lo stipendio per ribadire la sua opposizione a qualunque compromesso con il "parlamentarismo" borghese" ed il rifiuto di una concezione "professionale" della delega e dell'impegno sindacale.
Fu molto scosso dalle spaccature che divisero il movimento sindacale nel 1948-49, convinto della validità dell'unità sindacale basata sulla solidarietà di classe derivante dalle lotte dei lavoratori.
Sono questi i punti che caratterizzano sempre la sua presenza ai Congressi Nazionali della CGIL, come rappresentante della categoria della quale era segretario, la FLIE, e alle riunioni del Direttivo Nazionale della CGIL fino alla sua morte avvenuta a Roma il 24 giugno 1957.