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Difesa Sindacale n27
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Difesa Sindacale
LA COMPONENTE ANARCHICA NELLA
CONFEDERAZIONE GENERALE ITALIANA
DEL LAVORO (1944 - 1960)
Comunisti Anarchici e Libertari in CGIL n. 35 Maggio 2016
LA CGIL STRETTA TRA PARLAMENTARISMO E REFERENDUM
di Stefania Baschieri*
La CGIL, rimasta a lungo inerte dopo lo sciopero generale del 12 dicembre 2014 contro il Jobs act, ha presentato in questi mesi una sua
proposta per un nuovo statuto dei lavoratori e delle lavoratrici ed ha deciso di ricorrere all'istituto referendario contro le misure del Governo
Renzi. La “Carta dei diritti universali del lavoro” elaborata dalla CGIL – ovvero il nuovo statuto - è il risultato di un lavoro lungo e sicuramente
ambizioso che conta su oltre 90 articoli e che si propone di estendere a tutti i lavoratori regole per la partecipazione, rappresentanza e tutele e
, al contempo, introdurre norme specifiche anche per i lavoratori autonomi.
La “Carta”, che diventerà una proposta di legge di iniziativa popolare dopo la raccolta delle firme necessarie, è composta da tre parti: principi
universali, norme per dare efficacia generale alla contrattazione e codificazione della rappresentanza, riscrittura dei contratti di lavoro.
L'idea è quella di rispondere alle misure di destrutturazione del mondo del lavoro prese dai vari governi - in ultimo quello presieduto da Matteo Renzi
- per ricostruire una rete di diritti estendendola a tutti i lavoratori, siano essi subordinati, atipici, autonomi, pubblici o privati, di qualunque azienda di
qualsiasi dimensione, prendendo atto dei cambiamenti avvenuti, e che stanno avvenendo, che vedono una crescita delle disuguaglianze e delle divisioni
nella classe lavoratrice.
Laddove il Jobs act ha cancellato diritti ed aumentato la precarietà, la CGIL rilancia proponendo un nuovo statuto dei lavoratori e delle lavoratrici che
superi la storica dicotomia tra lavoro dipendente ed autonomo. Si tratta di garantire il diritto ad un lavoro decente e dignitoso, ad un compenso equo,
alla libertà di espressione, alle pari opportunità, alla maternità ed alla paternità, ad una “pensione dignitosa”, alla formazione continua, alla sicurezza sul
lavoro, alla riservatezza con il divieto dei controlli a distanza, alla libertà sindacale, al reintegro del lavoratore per i licenziamenti illegittimi - anche per le
aziende sotto i 15 dipendenti - cancellato dalla riforma Fornero e dal Jobs act.
La “Carta” si propone, inoltre, di definire le regole per la elezione delle rappresentanze unitarie sindacali e di ridurre le innumerevoli tipologie di contratti
che pongono l'Italia ai primi posti della precarietà del lavoro, precarietà ulteriormente accentuata dal cosiddetto “contratto a tutele crescenti” che in realtà
è solo ad “indennizzo crescente” (e limitato): un contratto che ha creato una nuova categoria di “stabilmente precari” che durerà verosimilmente fino alla fine
degli incentivi alle imprese e che espone le lavoratrici ed i lavoratori ad ogni possibile ricatto in quanto non più tutelati dall'art. 18.
Nel merito l'articolato approvato dal Comitato Direttivo Nazionale della CGIL, presentato in migliaia di assemblee, assume nel complesso un valore
certamente positivo ed altamente simbolico perchè tenta di ripensare una cultura basata sull'egemonia del lavoro dipendente all'interno di un universalismo
giuridico, rimettendo al centro il valore del lavoro, la sua dignità e ristabilendo l'equilibrio tra legge e contrattazione respingendo, quindi, le scelte operate
dal governo.
Vi sono anche degli aspetti di criticità, ad esempio laddove si parla di “Diritto al sostegno dei redditi da lavoro”. Da un lato, infatti, si chiede giustamente
di garantirlo a tutti, dall'altro però si parla di un “sistema assicurativo che preveda trattamenti economici tali da assicurargli un'esistenza libera e dignitosa”.
La scelta del criterio assicurativo, e non di quello universalistico del welfare, è sicuramente un punto di caduta in quanto la richiesta di rafforzare il sistema
assicurativo rischia di incidere sulle aliquote INPS a carico dei lavoratori atipici, cioè proprio quei soggetti più deboli che lo statuto della CGIL intende
includere nelle tutele. E' certamente complicato per un lavoratore precario, la cui povertà è dimostrata da molteplici studi, pagarsi un'assistenza del genere.
La proposta della CGIL vuole essere una risposta al grave problema della discontinuità del lavoro, ma un nuovo “Statuto” dovrebbe contenere una misura
di integrazione universalistica al reddito garantita non da criteri assicurativi, ma dalla fiscalità generale, affrontando quindi anche la questione fiscale nel suo
complesso, a partire da una diversa e più incisiva progressività delle aliquote tali da consentire una reale redistribuzione della ricchezza.
La CGIL, come detto, ha svolto una consultazione straordinaria delle iscritte e degli iscritti che sono stati chiamati ad esprimersi in merito al testo ed
alla conseguente presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare; assieme a questa era prevista anche la possibilità di ricorrere ai referendum
per modificare alcune norme introdotte dal Jobs act. Nelle assemblee il SI alla proposta di legge ha ottenuto il 98,49% dei voti, mentre il ricorso ai referendum
è stato approvato dal 93,59% dei partecipanti.
Il 9 aprile è iniziata quindi la raccolta di firme certificate sia per la presentazione della legge di iniziativa popolare che per tre referendum abrogativi che
si propongono di modificare il Jobs act ed altre leggi sul lavoro su tre punti: disciplina dei voucher, norme sugli appalti, norme sui licenziamenti che hanno
abolito l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Il complesso di queste iniziative, nella loro sostanza, è certamente apprezzabile. Peccato però che la scarsa reazione messa in campo dalla stessa CGIL
(mentre i governi Monti e Renzi facevano piazza pulita “in quattro e quattr'otto” di decenni di lotte sindacali, e mentre in nome di una falsa unità con
CISL e UIL si rinunciava a dare forti risposte lasciando passare le controriforme del sistema pensionistico, del lavoro, della cosiddetta “buona scuola”)
non facilita la indispensabile mobilitazione per realizzare le condizioni affinché la proposta di legge ed i referendum possano andare avanti.
E' anche per questi motivi, pur rispettando il risultato conseguito dalla CGIL in migliaia di assemblee, che avanziamo delle forti riserve in merito alle
iniziative messe in campo dal sindacato. E' infatti prevedibile che la proposta di legge popolare, tra l'altro presentata nella attuale e difficile situazione di
arretramento della classe lavoratrice, si impantanerà nei meandri parlamentari con il rischio di uscirne – quando e se mai ne uscirà – profondamente
modificata. Resta il fatto che in questo modo si consegna uno strumento pensato ed elaborato per i lavoratori nelle mani della politica parlamentare
delegando così ai partiti - o alle loro frazioni – il tentativo di realizzare ciò che il sindacato non ha potuto o voluto fare.
Anche il ricorso ai referendum, che una volta presentati ed ammessi dovrà vedere un grande impegno di tutta la confederazione, ci sembra una soluzione
di ripiego che difficilmente riuscirà a produrre un risultato positivo. Già il referendum contro il taglio dei punti della scala mobile, svolto nel lontano 1985 in
condizioni politiche e sociali molto più favorevoli di quelle attuali, vide sconfitto il quesito referendario (con il 54% di NO) evidenziando i limiti di un voto
sui temi del lavoro in cui si esprimevano anche classi e settori sociali lontani e contrapposti a queste tematiche.
Oggi il pericolo viene soprattutto dal mancato raggiungimento del quorum che può vanificare gli sforzi e l'impegno di tante energie che potrebbero
essere indirizzate in ben altro modo (ricordiamo che dal 1997, negli ultimi 28 referendum raggruppati in 8 giornate, solo quelli sulla gestione privata
dell'acqua e sulla energia nucleare hanno raggiunto il quorum nel 2011 con il 54% dei votanti; questo anche perché l'incidente nucleare di Fukushima,
in Giappone, mise sotto gli occhi di tutti la vulnerabilità delle centrali nucleari).
La CGIL presenta questo complesso di proposte come la fine dell'arretramento sindacale di questi anni e come una controffensiva che si basa su proposte
concrete in grado di contrastare la destrutturazione del mondo del lavoro. In realtà, con questa linea, si abbandona qualsiasi prospettiva di lotta e di
mobilitazione nei posti di lavoro rischiando così di porre le basi per ulteriori sconfitte ed arretramenti. A noi sembra, a dire il vero, che l'insieme di queste
proposte parlamentari e referendarie sia più un ripiego per mascherare i propri limiti politici e sindacali che un progetto effettivamente praticabile. Un progetto
che se non avrà sbocchi concreti rischia di ritorcersi contro la stessa CGIL andando ad aumentare la sfiducia della classe lavoratrice ed approfondendo la
distanza tra i lavoratori e il sindacato.
*SPI-CGIL Lucca
Documento Cgil- Cisl- Uil sulle Relazioni Industriali.
Manifesto della svolta cogestiva del sindacalismo confederale
di Carmine Valente*
Il documento sulle relazioni industriali è stato formalizzato dagli esecutivi confederali unitari il 14 gennaio 2016. Approvato all'unanimità con l'assenso quindi
sia della Fiom, sia dall'area di Democrazia e lavoro, nonostante, fra l'altro, il paragrafo sulle regole che ripropone il Testo Unico sulla rappresentanza.
Pur essendo trascorsi oltre tre mesi non solo non vi è traccia di dibattito nella nostra organizzazione, ma vi è la concreta sensazione che buona parte dei
dirigenti e funzionari della CGIL non ne conoscono l'esistenza o al massimo conoscono le scarse note apparse sulla stampa sindacale. Ma se questo documento
è sostanzialmente “desaparecido” perché portarlo all'attenzione delle compagne e compagni e sottoporlo a critica?
Andiamo con ordine e cerchiamo di capire, partendo dalla genesi del documento, quali problemi di metodo e di merito sono legati a questa elaborazione.
Abbiamo in altre occasioni evidenziate le torsioni democratiche che hanno caratterizzato le scelte della nostra organizzazione in questi ultimi anni.
Il concentrare tutto il potere decisionale nel Comitato Direttivo Confederale Nazionale, ribaltando la piramide democratica facendola poggiare sul vertice
anziché sulla base, con gli ovvi problemi di sbandamento venendo a mancare quel processo di discussione e condivisione delle elaborazioni a partire dalle
istanze sindacali di base, unico metodo che può dare un sostegno stabile, coeso e forte ad un'organizzazione di massa che organizza quasi sei milioni di
lavoratori e pensionati.
Il dare vita ad istituti extra-statutari come le riunioni periodiche dei segretari generali nelle quali di fatto si prendono le decisioni relegando i direttivi a semplici
organismi di ratifica di scelte già operate.
In questa occasione si va oltre, non solo l'organizzazione non è stata chiamata a discutere prima della ratifica con CISL e UIL e della trasmissione a Confindustria,
ma non è stata nemmeno informata successivamente dei contenuti del documento. La discussione quando c'è stata si è limitata ad alcuni direttivi nazionali,
ma non è stata in alcun modo calata nei territori.
Di per sé una caduta democratica pesante che assume una gravità ed una rilevanza ancora più grande considerate le novità, a nostro avviso, regressive e
subalterne alle logiche dell'impresa che questa proposta unitaria contiene.
Il ragionamento che si dipana in questo documento è completamente avulso dall'analisi della crisi, dall'individuazione dei meccanismi che l'hanno generata e
dai soggetti che ne hanno creato i presupposti e dai soggetti che prima, durante e poi successivamente al ciclo di crisi ne hanno tratto e ne traggono vantaggio
in termini di potere economico, finanziario e politico.
La crisi, e quindi la condivisione di crescente miseria di sempre più vaste porzioni di lavoratori e di popolazione, appare come un processo di partenogenesi,
il risultato di un'auto produzione naturale priva di agenti e responsabilità.
Spazzolando definitivamente un pensiero di sinistra che individuava nel lavoro e nella classe lavoratrice la classe generale che emancipando se stessa ,
emancipava l'intera umanità, nelle premesse del documento si pongono il lavoro e l'impresa sullo stesso piano quali “leve importanti sulle quali agire per un
cambiamento del Paese.”.
Un'affermazione, questa, che cancella decenni di conflitto di classe, che eclissa un dato incontrovertibile, ovvero che queste imprese e le loro organizzazioni
di rappresentanza sono state nei decenni le ispiratrici e le sostenitrici di tutte le norme che hanno smantellato i diritti dei lavoratori e sono state le stesse che
nella micro, come nella piccola, media e grande impresa hanno accumulato profitti attraverso la compressione dei salari, l'intensificazione dello sfruttamento
nel ciclo produttivo e nel peggioramento dei livelli di sicurezza. Anche là dove nel documento si colgono problematiche della condizione operaia, come per
esempio i “fenomeni disgregatrici” nel lavoro degli appalti, si cade in un'analisi astratta: se non si spiega chi e come questi fenomeni si sono sviluppati, si
evocano i problemi, ma non si fa un passo avanti per risolverli. Peraltro il tanto decantato intervento del Governo sugli appalti non ha cambiato gli aspetti
più negativi; non si introduce la clausola sociale, rimane sotto nuova terminologia il massimo ribasso, rimane in larga misura l'assegnazione diretta.
La proposta sindacale, sulla quale sviluppiamo alcune brevi riflessioni, si sviluppa sulla contrattazione, il welfare, la partecipazione.
La contrattazione
Sulla contrattazione le Segreterie Confederali rivendicano una “necessaria discontinuità” dalla storia contrattuale sviluppatesi dal dopo guerra ad oggi.
La premessa a questo ragionamento è che nel dopoguerra le relazioni industriali si sono sviluppate sul terreno dei CCNL (Contratti collettivi nazionali di lavoro),
quindi la discontinuità che si afferma necessaria riguarda la struttura dei contratti collettivi nazionali.
L'idea del Contratto Nazionale che emerge da questa proposta è quella di un contratto di riferimento generale in un rapporto flessibile con i contratti di secondo
livello e soprattutto un modello contrattuale che si plasma sulle esigenze delle imprese, guardando alle diversità che queste incontrano nei settori, nelle
dimensioni produttive, nei territori. Il riferimento alle diversità territoriali richiama lo schema delle vecchie gabbie salariali proprio in una fase storica in cui
avremmo bisogno di livelli reali di contrattazione a livello europeo
Tanti modelli contrattuali per quante sono le esigenze produttive e di profitto delle imprese.
Gli aumenti salariali che si prevedono oltre il semplice recupero dell'inflazione vengono però relegati alla contrattazione di secondo livello e soprattutto
direttamente legati alle condizioni dell'impresa. E’ la vera fine del salario variabile indipendente, affermata già da Lama nel finire degli anni '70 del secolo
scorso e praticata di fatto nei decenni successivi, ma non era mai stata detta con tanta determinazione e scritta in un documento consegnato alla Confindustria.
Con questo approccio, la parola d'ordine a parità di lavoro, parità di salario viene definitivamente messa in soffitto. Il salario, fatto salvo il salario minimo
contrattuale sempre se accolto dalle controparti, diventa una variabile in disponibilità del padrone.
L'assenza di una qualsiasi contestualizzazione della condizione operaia e del mondo del lavoro in generale avvolge tutto in un indistinto “problemismo”
incolpevole, così i morti per lavoro si fanno risalire ad una semplice svalutazione del lavoro, quando ivece la situazione infortunistica è direttamente legata
al ricatto occupazionale e ai veri e propri regimi di “terrore” di fabbrica, che fa sì che i lavoratori accettano di lavorare anche in evidenti situazioni di pericolo.
In una logica tutta interna al patto tra produttori e alla affermazione del valore sociale dell'impresa la caduta verticale del potere di acquisto viene legata alle
politiche fiscali e tariffarie, dimenticando che la diminuzione dei redditi di lavoro è legata al contemporaneo aumento dei profitti. La ricchezza nazionale ha
subito una profonda inversione nel rapporto tra redditi che vanno al lavoro e redditi che vanno al capitale. La ripartizione a favore dei profitti non è un
fenomeno recente, ma in questi ultimi decenni ha subito un' accelerazione impressionante alla quale si è accompagnata ad una crescente gerarchizzazione
dei processi produttivi con una pletora di ruoli di coordinamento e di direzione che non trovano giustificazione nell'organizzazione del lavoro, ma unicamente
nella necessità di spezzare l'unità della classe. In questi anni di crisi sarebbe stato utile fra l'altro analizzare il peso, anche economico, che sempre di più si è
spostato sul management.
Welfare contrattuale
Il welfare contrattuale che si chiede di sviluppare benché si affermi che non debba essere sostitutivo del welfare universalistico si pone di fatto in aperta
antitesi con questo determinando una differenziazione tra i vari livelli di copertura aziendale e tra chi non ha alcuna copertura e lega ideologicamente il
lavoratore all'azienda. Peraltro senza spostare risorse dal capitale al lavoro in quanto le quantità economiche che i capitalisti destinano alla remunerazione
del lavoro non cambiano e il welfare non è che una parte del costo del contratto programmato dal capitalista.
La centralità dell'impresa che è premessa a tutto il documento ha come sbocco conseguenziale la logica della competitività e lo sviluppo competitivo che si
segnala come strumento per uscire dalla crisi presuppone settori di classe operaia che subiscono gli effetti del mercato.
Se la competitività delle imprese è assunto dal sindacato come obiettivo, ne deriva necessariamente una scelta di collaborazione di classe, e in ultima analisi
l'accettazione di una logica di guerra. In questa prospettiva la responsabilità sociale che si auspica è una evidente contraddizione con la competitività.
La formazione dei delegati sindacali e del management aziendale con processi condivisi e la previsione di forme di partecipazione alla gestione/sorveglianza
delle aziende completano il quadro.
Potremmo definire questo documento come il manifesto della svolta cogestiva del sindacalismo confederale o meglio la formalizzazione e la sistematizzazione
di una prassi già ampiamente praticata ma, perlomeno dalla Cgil, mai ufficializzata in maniera organica.
*Direttivo CdL Cgil Livorno
Francia: continua la lotta contro la nuova legge sul lavoro
Da oltre due mesi la Francia è scossa da agitazioni e manifestazioni contro la riforma del codice del lavoro che, secondo le intenzioni del Presidente Hollande
e del Governo Valls, dovrebbe dare un forte impulso all'economia attraverso l'aumento della flessibilità del mercato del lavoro.
L'accostamento di questi provvedimenti con il Jobs act introdotto in Italia dal Governo Renzi è stato fatto da molti, anche se le realtà sociali e produttive dei
due paesi sono diverse. E diverse, infatti, sono le misure adottate dal governo francese, anche se ciò non cambia la logica della “riforma” ed il risultato che
si vuole conseguire: facilitare i licenziamenti, ridurre i ricorsi davanti al giudice, aumentare la precarietà e la flessibilità dei lavoratori.
Per questo si vuole ampliare la possibilità del ricorso al licenziamento economico anche nel caso di un ripetuto calo di ordini o di vendite, per perdite di
esercizio, per il trasferimento di tecnologie, ecc... E' facile immaginare, con questa legge, quali possibilità si offriranno alle aziende per tagliare il personale
agendo “artificialmente” sui bilanci, sulla competitività, sulla delocalizzazione.
Nella situazione francese l'obiettivo principale che si è posto il Governo Valls (appoggiato dal MEDEF, ovvero la “Confindustria” d'oltralpe) non è stato
quello dell'abolizione della reintegrazione del lavoratore, obbligatoria solo in caso di provata discriminazione, ma bensì quello di spingere verso la contrattazione
territoriale/aziendale ed ampliare la possibilità del ricorso allo straordinario sempre meno pagato. Ma anche in caso di licenziamento illegittimo si voleva porre
un limite alla possibilità di decisione dei magistrati prevedendo una indennità massima, da tre a quindici mensilità, da fissare in base all'anzianità del lavoratore.
Il codice del lavoro prevedeva già il superamento delle 35 ore settimanali, fissate dalla legge Aubry nel 1998, fino ad un massimo di 60 ore per “circostanze
eccezionali”, ma il tempo massimo del lavoro non poteva superare le 44 ore medie su un periodo di 12 settimane. Il Governo introduce allora la possibilità
di arrivare, attraverso accordi aziendali o di settore, ad una media settimanale di 46 ore su un periodo di 16 settimane.
Inoltre il dipendente potrà lavorare fino a 12 ore al giorno con un ricorso allo straordinario pagato con una maggiorazione del 10% rispetto alla paga oraria
ordinaria, mentre fino ad ora questa veniva maggiorata del 25% per le prime otto ore e del 50% per le ore successive. Come detto, una spinta al ricorso allo
straordinario da parte dei padroni ed un aumento dello sfruttamento dei lavoratori.
Come “contentino” la nuova legge, che prende il nome dalla Ministra del Lavoro Myriam El Khomri, prevederebbe un conto personale del lavoratore in
grado di trasferire i diritti acquisiti sul piano assistenziale, previdenziale, sanitario, nella sua trasmigrazione da un posto di lavoro ad un altro. Come questa
norma verrà applicata ci sembra ancora da definire, ma comunque è una inezia rispetto all'abbattimento delle conquiste di decenni di lotte.
Questa legge ha trovato, prima ancora che arrivasse in parlamento, una forte opposizione sia da parte sindacale che da parte degli studenti e dei giovani
in generale. Il 31 marzo, dopo una raccolta di oltre un milione di firme contro il progetto, si è svolta una grande manifestazione in diverse città francesi,
seguita da altre dimostrazioni il 5 ed il 9 aprile, poi ancora il 28 aprile con duecento manifestazioni, fino a quelle del 1° maggio dove la controriforma del
codice del lavoro è stata al centro della giornata di lotta e di mobilitazione.
Il Governo Valls, per cercare di dividere ed ammorbidire l'opposizione, ha fatto prima una parziale marcia indietro rispetto al massimale previsto per i
licenziamenti illegittimi. Troppo poco, anche se tra i sindacati la CFDT (che in un tempo lontano parlava addirittura di autogestione !) ha iniziato a
sostenere che la legge andrebbe messa alla prova.... Adesso il progetto è stato presentato in Assemblea Nazionale ed il primo Ministro Manuel Valls,
visti i circa cinquemila emendamenti, il fallimento delle trattative sindacali, la probabile mancanza di una maggioranza parlamentare, ha deciso di ricorrere
all'uso dell'articolo 49.3 della Costituzione francese che permette in casi eccezionali di applicare la legge senza il voto in aula, salvo la presentazione di una
o più mozioni di sfiducia da presentare entro le 24 ore successive.
Il colpo di mano del Governo Valls ha permesso alla controriforma del lavoro di diventare legge. Vedremo come si svilupperà il successivo percorso
parlamentare, ma soprattutto quali azioni di lotta e di contrasto potranno essere portate avanti nelle piazze, nelle fabbriche, in tutti i posti di lavoro.
Quello che è certo è che la vera natura di questa legge aumenta lo sfruttamento della classe lavoratrice e fa parte dell'attacco che il capitale ha sferrato
contro i diritti dei lavoratori, non solo in Francia, ma in tutta Europa.
Un attacco destinato a svilupparsi, qualunque sia il governo che i lavoratori si troveranno di fronte, perchè non esistono i Governi amici ma solo le dure
condizioni che vengono imposte dal capitalismo per difendere i propri interessi. Per questo è ancora più necessario ed urgente che i lavoratori e le
lavoratrici recuperino una visione internazionalista, a cominciare dalla formazione di un vero sindacato europeo che riesca a riunificare le forze di
tutti gli sfruttati per lottare per i propri interessi di classe.
Un enragé